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Quando Netflix ha lanciato Baby Reindeer ad aprile 2024, pochi avrebbero immaginato che una miniserie di 7 episodi, inizialmente poco promossa e categorizzata piuttosto confusamente come “commedia”, avrebbe conquistato il primo posto delle visualizzazioni mondiali e generato un dibattito che ancora oggi non accenna a fermarsi.
La serie, scritta, diretta e interpretata dal comico scozzese Richard Gadd, ha spazzato via ogni aspettativa. Non è una commedia nel senso tradizionale. Non è nemmeno un semplice thriller sullo stalking. È qualcosa di più raro e scomodo: una narrazione che non permette allo spettatore la distanza confortevole dell’intrattainment ordinario, ma lo costringe a rispecchiarsi nelle contraddizioni dei suoi protagonisti.
La storia vera dietro la finzione
Al cuore di Baby Reindeer c’è un episodio reale accaduto nella vita di Richard Gadd tra il 2015 e il 2018. Quando era un aspirante comico a Londra, Gadd è stato perseguitato per tre anni da una donna che, dopo un innocente gesto di gentilezza (una tazza di tè offerta in un bar), ha iniziato a inondarlo di migliaia di messaggi, a presentarsi a tutti i suoi spettacoli e a molestare le persone intorno a lui.
Prima di diventare serie, Gadd raccontò questa storia nel suo spettacolo teatrale “Monkey See Monkey Do”, che nel 2017 vinse l’Edinburgh Award durante il Fringe di Edimburgo. Poi, ha deciso di portare questo racconto personale su Netflix, mantenendo un equilibrio delicato tra fedeltà ai fatti e necessità narrativa. Come ha dichiarato, ha preso tutte le precauzioni necessarie per proteggere l’identità della vera stalker, non rivelando mai il suo nome ai media.

Quando gli abusi cambiano forma
Qui sta il vero genio della serie: Baby Reindeer promette uno schema narrativo classico—il perseguitato e il persecutore—ma presto il focus cambia. Lo stalking di Martha verso Donny, pur restando presente, diventa uno strumento per scavare in profondità nella psicologia del protagonista.
Man mano che la serie progredisce, scopriamo che la passività con cui Donny subisce le molestie non è semplicemente dovuta al fatto che nessuno lo crede (anche se questo problema esiste, e la serie lo mostra in modo crudo). La vera radice è molto più profonda: il trauma di abusi sessuali passati, una ricerca disperata di conferme, un bisogno patologico di attenzione che lo rende vulnerabile a qualsiasi forma di legame umano, per quanto tossico.
Nel racconto di Gadd, la violenza non è solo fisica. È quella psicologica, insidiosa e quasi invisibile. È il modo in cui possiamo, inconsapevolmente, perpetuare dinamiche dannose perché sono l’unico modo che conosciamo per sentirci “vivi” o “importanti”. È la scoperta angosciante che vittima e carnefice non sono categorie fisse, ma ruoli che possiamo interpretare alternatamente nella stessa storia.
Il nostro specchio contemporaneo
Da una parte, guardiamo cercando di capire chi ha sbagliato, quando e come. Dall’altra, improvvisamente ci ritroviamo a interrogarci su noi stessi. Non riuscendo a decidere chi sia il vero colpevole, arriviamo a una conclusione terribile: prima o dopo, lo siamo tutti, nella storia di qualcun altro.
Questo è il motivo per cui Baby Reindeer non è stato semplicemente una storia di successo sui social media, ma un fenomeno culturale. In un’epoca dove la narrazione personale, tramite i social media, è diventata il nostro modo primario di comunicare, una storia che parla di autoriflessione, di come recitiamo noi stessi e di come possiamo perderci nel farlo, è incredibilmente attuale.
La rara eccellenza televisiva
Quello che distingue Baby Reindeer dalle altre serie drammatiche scritte da comici è la sua qualità tecnica e narrativa. La regia di Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch è straordinaria: angoli inquietanti, primi piani scomodi, un’estetica che a volte sembra un film horror. Come ha scritto il Guardian, ci sono momenti in cui è “terrificante”.
I sette episodi, ognuno di circa 30 minuti, sono perfettamente dosati. Niente è allungato artificialmente; tutto serve alla storia. In un panorama dove Netflix spesso dilata narrazioni che non lo richiedono, Baby Reindeer dimostra che la brevità, se ben strutturata, può essere devastante.

Perché noi di tveserie.it lo abbiamo amato
Baby Reindeer è una riscrittura consapevole di archetipi narrativi. Richiama inevitabilmente “Attrazione fatale” (1987), dove la donna è il mostro e l’uomo la vittima. Ma Gadd rifiuta questa semplicità: Martha non è Alex Forrest, una pazza unidimensionale. È una donna complessa, vista attraverso gli occhi di chi la teme, ma comunque umana.
E Richard/Donny non è il Dan Douglas benevolo vittima dell’irrazionalità femminile. È un uomo fragile, danneggiato, che fa scelte discutibili e che, infine, deve affrontare come le sue azioni abbiano conseguenze reali.
Intorno e dentro di noi sono in molti a cercare il grande streaming event del momento, destinato a diventare fenomeno globale. Raramente quel successo coincide con la qualità reale e con il coraggio narrativo.
Baby Reindeer è riuscito a fare entrambe le cose: è stato un fenomeno globale perché ha il coraggio di rifiutare le risposte facili, perché non fa dell’empatia un sentimentalismo, perché sa convincerci che prima o dopo, nella storia di qualcun altro, lo siamo stati tutti – vittima e carnefice.

Napoletana d’origine e torinese d’adozione, sono cresciuta tra un film di Hitchcock e una pizza da Sorbillo. Sono sempre alla ricerca di una nuova caffetteria o un nuovo sushi e adoro conoscere nuove persone e visitare posti nuovi, vicini e lontani.
