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Il Mostro: Netflix ci riporta nell’incubo che l’Italia non ha mai dimenticato

C’è una ferita nella memoria collettiva italiana che non si è mai rimarginata. Un nome che ancora oggi, pronunciato, fa venire i brividi a chiunque abbia vissuto quegli anni o ne abbia solo sentito parlare. Il Mostro di Firenze. Non un mostro metaforico, non un mostro da favola. Un mostro reale. O forse più di uno. O forse nessuno. Perché la verità è che, dopo decenni, quel caso non è mai stato risolto.

Il Mostro, la nuova miniserie Netflix diretta da Stefano Sollima (quello di Gomorra, Suburra, Sicario), è arrivata sulla piattaforma il 22 ottobre 2025. E ragazzi, non è una serie facile. Non è comfort TV. Non è quella cosa che guardi mentre scorri Instagram. È un pugno nello stomaco. Ed è esattamente quello che dovrebbe essere.

Otto duplici omicidi. Diciassette anni di terrore. Nessun colpevole

Parliamo dei fatti. Tra il 1968 e il 1985, nelle campagne attorno a Firenze, otto coppie furono uccise mentre si appartavano in auto. Sedici vittime. Sempre lo stesso modus operandi: colpi di pistola, una Beretta calibro 22, proiettili Winchester serie H. E in alcuni casi, mutilazioni.

Per diciassette anni, la provincia fiorentina visse nel terrore. I ragazzi non si appartavano più. Le strade di campagna diventavano deserte dopo il tramonto. Ogni coppia che si fermava in macchina lo faceva con la paura che potesse essere l’ultima volta.

Le indagini furono lunghissime, complicate, piene di false piste, errori giudiziari, ossessioni investigative. Nomi come Pacciani, i compagni di merende, la pista sarda, i Vinci, Stefano Mele—tutti nomi che diventarono parte di un incubo collettivo. Arresti, processi, condanne, assoluzioni. Ma il mostro? Mai trovato. Mai condannato definitivamente. Mai un nome certo.

Sollima sceglie la via più difficile (e più giusta)

Stefano Sollima è uno che non fa sconti. Lo sappiamo da Gomorra, da Suburra, da A.C.A.B. Quando decide di raccontare qualcosa, lo fa senza filtri, senza edulcorazioni, senza vie di fuga morali. E con Il Mostro ha fatto esattamente questo.

La serie, co-creata con Leonardo Fasoli (anche lui di Gomorra), non cerca di risolvere il caso. Non arriva con la soluzione che gli inquirenti non hanno trovato in quarant’anni. Non ti dice “ecco, il colpevole è lui”. Sarebbe stato facile, troppo facile. E soprattutto, sarebbe stato disonesto.

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Invece, Sollima fa una cosa più coraggiosa: racconta la storia dal punto di vista dei “mostri”. Quelli che nel corso degli anni sono stati sospettati, arrestati, accusati. Stefano Mele, Francesco Vinci, Salvatore Vinci, Giovanni Mele. Uomini che forse erano colpevoli. O forse no. O forse lo erano di altro.

Come dice lo stesso Sollima: “In una storia dove i mostri possibili sono stati molti, il nostro racconto esplora loro, i possibili mostri, dal loro punto di vista. Perché il mostro, alla fine, potrebbe essere chiunque.”

La pista sarda: L’orrore quotidiano che nessuno voleva vedere

Qui sta il vero colpo di genio della serie. Il Mostro non è una serie sul serial killer. È una serie su un mondo. Il mondo della famiglia contadina patriarcale sarda degli anni ’60, trapiantata in Toscana. Un mondo dove le donne valevano meno del bestiame. Dove la violenza era quotidiana, accettata, normalizzata.

Barbara Locci (interpretata da Francesca Olia) è la prima vittima del 1968, uccisa insieme al suo amante Antonio Lo Bianco mentre il figlio Natalino di 6 anni dormiva sul sedile posteriore. Ma la serie ci mostra che Barbara era già una vittima molto prima di quella notte. Vittima di un sistema che la disprezzava per la sua libertà sessuale, che la chiamava “la puttana del paese”, che la voleva morta prima ancora che qualcuno premesse il grilletto.

Come scrive Fanpage nella recensione: “Sollima non ci offre vie di fuga morali, non ci regala personaggi con cui identificarci completamente. Ti lascia solo con la consapevolezza che l’orrore vero non è mai quello che fa notizia, come gli otto duplici omicidi del ‘mostro’, ma quello che si consuma ogni giorno dentro le mura domestiche, invisibile agli occhi di chi non vuole vedere.”

Quattro episodi come quattro pugni

La serie è strutturata in quattro episodi da circa un’ora ciascuno. Non c’è filler. Non c’è respiro. Ogni episodio è un pezzo del puzzle, ma un puzzle che non si ricompone mai completamente.

Episodio 1: Il delitto del 1968. Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Il piccolo Natalino testimone. Stefano Mele, marito di Barbara, che confessa subito. Troppo subito.

Episodio 2: 1982. Un nuovo duplice omicidio. Stessa arma del 1968. Ma Stefano Mele è in carcere. Allora chi? Francesco Vinci, l’ex amante di Barbara, diventa il nuovo sospettato.

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Episodio 3: Giovanni Mele, fratello di Stefano. Le lettere del 1968. I sospetti che si spostano ancora una volta. La ricostruzione di un ambiente familiare dove la violenza è l’unica lingua parlata.

Episodio 4: Salvatore Vinci. Il delitto di Vicchio del 1984. La mutilazione. L’ultima vittima, quella francese. E il lembo di seno spedito alla magistrata Silvia Della Monica (interpretata da Liliana Bottone, vista in Parthenope di Sorrentino).

Ogni episodio aggiunge o toglie un tassello. Ogni episodio ti fa credere di aver capito, e poi ti toglie quella certezza. È frustrante. È destabilizzante. Ed è esattamente come deve essere.

Il cast: volti nuovi per una storia che doveva sembrare vera

Sollima ha fatto una scelta precisa: nessuna star. Nessun volto riconoscibile che ti distragga dalla storia. Ha scelto attori giovani, molti alla prima grande produzione, la maggior parte sardi.

Marco Bullitta (Stefano Mele), Valentino Mannias (Salvatore Vinci), Giacomo Fadda (Francesco Vinci), Antonio Tintis (Giovanni Mele), Francesca Olia (Barbara Locci). Nomi che forse non conoscete. Ma credetemi, li ricorderete.

Le loro interpretazioni sono asciutte, sporche, prive di ogni virtuosismo. Parlano in dialetto sardo stretto, tanto che a volte devi davvero concentrarti per capire. E questo è voluto. Sollima vuole che tu faccia fatica. Vuole che ti senta straniero in quel mondo. Vuole che capisca quanto fosse chiuso, oscuro, impermeabile quel microcosmo.

L’unica presenza più conosciuta è Liliana Bottone nei panni della sostituta procuratrice Silvia Della Monica, la prima donna nella squadra investigativa. È lei che intuisce per prima che il killer degli anni ’80 aveva già ucciso nel 1968. È lei che riceve la busta con il lembo di seno dell’ultima vittima. Ed è lei l’unico personaggio che cerca la verità, mentre tutti gli altri cercano solo un colpevole.

Presentata a Venezia 2025 e premiata a Sitges

Il Mostro è stata presentata in anteprima alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2025, dove ha ricevuto standing ovation e recensioni entusiastiche. Successivamente è stata premiata al Sitges Film Festival 2025, uno dei festival più prestigiosi al mondo per cinema di genere.

La critica internazionale l’ha definita “una delle migliori produzioni Netflix degli ultimi anni”, “un capolavoro di tensione e ambiguità morale”, “il vero erede di True Detective stagione 1”.

Certo, non è piaciuta a tutti. Su IMDb ha un voto di 6.4/10. Alcuni spettatori l’hanno trovata troppo lenta, troppo frammentata, senza un protagonista chiaro. Ma io penso che sia esattamente questo il punto. Non può esserci un protagonista chiaro in una storia dove nessuno è innocente.

Dove vederla

Il Mostro è disponibile in esclusiva su Netflix dal 22 ottobre 2025. Tutti e quattro gli episodi sono già online, pronti per essere visti in una maratona (se ce la fate). La serie è stata rilasciata in occasione del decimo anniversario dell’arrivo di Netflix in Italia—un modo appropriato per celebrare, se vogliamo, dato che Netflix ha letteralmente rivoluzionato la serialità italiana negli ultimi dieci anni.

Se volete tutti i dettagli su trama completa, cast e data di uscita, vi rimando al nostro articolo di approfondimento su Il Mostro dove trovate tutte le informazioni tecniche sulla serie.

Audio e sottotitoli sono disponibili in italiano e in altre lingue. Ma io vi consiglio di guardarla in italiano, con i sottotitoli. Perché quel dialetto sardo, quella lingua aspra e dura, è parte integrante della storia.

È una serie che richiede pazienza, concentrazione, stomaco forte. Non è binge-watching spensierato. È un’esperienza che ti porterai dentro per giorni. La serie ti lascia con così tante domande che non puoi fare a meno di cercare risposte. Anche sapendo che non le troverai.

Buona visione!

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