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C’è un film che dal 9 ottobre 2025 sta riempiendo le sale italiane (384 cinema, per essere precisi). Un film che molti aspettavano con un misto di curiosità e timore. Curiosità perché è l’adattamento dell’ultima opera di Michela Murgia, quella scritta sapendo di essere malata. Timore perché come si adatta al cinema qualcosa di così personale, di così dolorosamente vero?
Tre ciotole, diretto dalla regista catalana Isabel Coixet con Alba Rohrwacher ed Elio Germano, non è un film facile. Ma non è nemmeno un film che ti schiaccia sotto il peso della tragedia. È qualcosa di più raro e prezioso: un film sulla vita prima che sulla morte. Sul trovare bellezza e grazia anche—soprattutto—quando sai che il tempo è contato.
E ragazzi, Alba Rohrwacher è straordinaria. Ma questo ve lo spiego meglio dopo.
Michela Murgia: l’ultima volta che ci ha insegnato qualcosa
Prima di parlare del film, dobbiamo parlare del libro. Tre ciotole è stato l’ultimo dono che Michela Murgia ci ha fatto prima di morire nell’agosto 2023, a soli 51 anni, per un tumore. Pubblicato pochi mesi prima della sua morte, il libro è una raccolta di dieci racconti—dieci persone, dieci dolori, dieci modi diversi di affrontare la perdita.
Non è autobiografico nel senso classico. Murgia non ha scritto “il libro sulla mia malattia”. Ha fatto qualcosa di più coraggioso: ha usato la propria esperienza del morire per scrivere della vita. Di come continuiamo quando non c’è più un “dopo”. Di come troviamo bellezza quando il futuro si accorcia.
Il libro ha venduto oltre 200.000 copie in Italia. È diventato un caso editoriale, un testo studiato, discusso, amato. Ma soprattutto, è diventato un conforto per chiunque stesse affrontando perdite—di salute, di persone, di certezze.
E quando Isabel Coixet ha letto il libro, ha capito che doveva farne un film. “È un film che parla di cose importanti in maniera lieve, senza gridare”, ha detto. “Ho cercato di essere fedele all’anima e alla sua delicatezza, spero che Michela sia contenta.”

La trama: una rottura, una diagnosi, una trasformazione
Il film fa una scelta coraggiosa: invece di adattare tutti e dieci i racconti del libro, si concentra su una storia, una coppia, due persone. Marta (Alba Rohrwacher) e Antonio (Elio Germano).
Dopo sette anni insieme, si lasciano. Non per un tradimento. Non per una crisi esplosiva. Semplicemente perché Antonio è stanco—stanco delle ritrosie di Marta, del suo non saper fingere, del suo evitare tutto ciò che non le piace fare. Lei è troppo autentica per lui. Troppo vera. E a volte la verità è faticosa.
Marta soffre la separazione fisicamente. Perde l’appetito. Non riesce più a mangiare. All’inizio pensa sia solo il dolore del cuore spezzato. Ma quando va dal medico, scopre qualcosa di molto peggiore: ha un tumore metastatico inoperabile.
E qui il film potrebbe diventare il classico melodramma strappalacrime. Ma non lo fa. Perché Tre ciotole non è un film sulla malattia. È un film su come Marta, di fronte alla prospettiva della morte, decide di vivere davvero per la prima volta.
Comincia a mangiare diversamente—non perché deve, ma perché improvvisamente il cibo ha un sapore che non aveva mai notato. Ascolta musica K-pop (un omaggio alla vera Michela Murgia che adorava i boy band coreani). Apre il suo cuore a persone nuove. Smette di preoccuparsi di cosa pensano gli altri.
E Antonio? Antonio, che l’ha lasciata, si rende conto troppo tardi di cosa ha perso. Ma a quel punto, Marta non ha più bisogno di lui. O meglio, non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno.
Alba Rohrwacher: la performance che merita tutti i premi
Alba Rohrwacher è uno dei tesori nazionali italiani. Lo sappiamo da La solitudine dei numeri primi, da Le meraviglie, da Lazzaro felice. Ma in Tre ciotole fa qualcosa di straordinario.
Marta non è un personaggio “forte” nel senso hollywoodiano. Non fa discorsi ispiratori. Non combatte la malattia con pugni alzati e slogan motivazionali. Marta si inchina. Come dice la regista: “Si inchina, come si fa davanti al sole che tramonta, consapevole che sorgerà di nuovo, altrove, al di là del suo sguardo.”
E Rohrwacher interpreta questa accettazione—non rassegnazione, ma accettazione consapevole—con una delicatezza che ti spezza il cuore. Ogni sguardo dice qualcosa. Ogni silenzio pesa. Quando sorride, è un miracolo.
Come ha scritto un critico su MyMovies: “Alba Rohrwacher e Elio Germano dichiarano il loro amore con una grazia, con una semplicità, con una credibilità mai visti al cinema. Un momento che dà senso a una vita intera.”
Elio Germano, dal canto suo, fa un lavoro sottile e doloroso. Antonio non è il cattivo. È solo un uomo che ha fatto la scelta sbagliata e deve conviverci. Germano lo interpreta senza giudicarlo, e questo rende tutto più umano, più vero.

Le tre ciotole: un rituale
Perché il film si chiama così? Nel film (e nel libro), le tre ciotole sono un rituale di consapevolezza alimentare introdotto da una nutrizionista interpretata da Sarita Choudhury. L’idea è semplice: invece di mangiare distrattamente, prepari il tuo cibo con attenzione, usando tre ciotole. Una per i cereali, una per le proteine, una per le verdure.
Ma non è solo una dieta. È un atto di cura verso sé stessi. È un modo per rallentare, per prestare attenzione, per essere presente nel momento. Per Marta, diventa un modo per ristabilire un rapporto con il proprio corpo—quel corpo che la sta tradendo, ma che è ancora vivo, ancora capace di provare piacere.
Come scrive Donna Moderna: “Preparare il cibo con tre ciotole diventa una pratica consapevole, che aiuta Marta a ristabilire un contatto con sé stessa, con il proprio corpo e con la realtà. Attraverso questo rito, il film esplora la possibilità di un nuovo inizio anche nei momenti di maggiore fragilità.”
Alcune recensioni si lamentano che il film non spiega abbastanza il significato delle tre ciotole. Ed è vero—non c’è un monologo espositivo che te lo spiega. Ma questo è intenzionale. Perché le tre ciotole non sono una soluzione. Sono un simbolo. E i simboli funzionano meglio quando li scopri da solo.
Isabel Coixet: la regista perfetta per questa storia
Isabel Coixet è una delle registe europee più sensibili quando si tratta di raccontare l’amore, la perdita, la malattia. Aveva già affrontato il tema del fine vita con La mia vita senza di me (2003), dove Sarah Polley interpretava una giovane donna con pochi mesi di vita.
Ma Tre ciotole è diverso. Non c’è la disperazione di quel film. C’è invece una leggerezza, una grazia, un’accettazione che è profondamente italiana—o meglio, profondamente murgiana.
Coixet gira a Roma, nei quartieri di Trastevere e Testaccio. Non la Roma turistica, quella dei monumenti. Ma la Roma autentica, quella dei mercati, dei bar di quartiere, delle strade dove la gente vive davvero. La fotografia di Guido Michelotti è calda, luminosa, piena di quella luce dorata che solo Roma ha.
E la colonna sonora di Alfonso De Vilallonga include—sorpresa—musica K-pop, per omaggiare la passione di Michela Murgia per gli idol coreani. Un dettaglio che potrebbe sembrare strano ma che invece è perfetto: anche nella morte, c’è spazio per la gioia pop.

Il giudizio di tveserie.it
Tre ciotole non è un film perfetto. Ma è un film necessario. È l’ultimo regalo che Michela Murgia ci ha fatto, filtrato attraverso la sensibilità di una grande regista e incarnato da attori straordinari.
È un film che ti ricorda che anche nell’addio può esserci grazia. Che anche nel dolore c’è spazio per la gioia. Che la vita vale la pena fino all’ultimo respiro.
E in un’epoca in cui il cinema sembra sempre più rumore e sempre meno sostanza, un film così – quieto, delicato, profondamente umano – è un piccolo miracolo.

Napoletana d’origine e torinese d’adozione, sono cresciuta tra un film di Hitchcock e una pizza da Sorbillo. Sono sempre alla ricerca di una nuova caffetteria o un nuovo sushi e adoro conoscere nuove persone e visitare posti nuovi, vicini e lontani.
